Intervista di Mario Palumbo a Mauro Ferraris

´Sono nato nel giugno del '46, due anni dopo lo sbarco in Normandia. Ho avuto un'educazione molto tradizionale, attenta ai valori della fratellanza e del rispetto della natura; mio padre era un capo scout. Seguii gli studi di geometra e poi mi iscrissi alla facoltà di scienze politiche. Avevo anche un lavoro con un ottimo stipendio in una societý che vendeva carrelli elevatori. Ma era l'epoca della contestazione studentesca, nella quale mi buttai a testa bassa. Fui licenziato (oggi dico: giustamente). Ero un disperato che, come tanti altri giovani, voleva cambiare il mondo. Ma quando si arrivò al punto di lasciare il bastone per impugnare la pistola non me la sentii di proseguire. E qui entrò in campo, fortunatamente, Gianfranco Ughetto, un uomo di Giaveno che mi fece conoscere i cavalli. Mi trasferii qui e acquistai il primo cavallo, Geremia, che veniva dall'America ma non era un quarter. A presentarmelo fu un vecchio amico di mio padre, veterinario e uomo di cavalli. A Pinerolo era stato allievo di Amalfi, a sua volta allievo di Caprilli. Migliore maestro non potevo avere: da lui ho imparato tutto quello che so dei cavalli. Giaveno Ë a un tiro di schioppo da Pinerolo: scavalchi una collina e ci sei. L'influenza della scuola di cavalleria è come un imprinting per chi va a cavallo da queste parti.

Una carezza a Cartuccera, e Mauro riprende il racconto. ´Con Geremia ho passato momenti stupendi. Io dormivo in un furgone e lui in una stalletta, qui dove poi abbiamo messo su il Centro Alpitrek. Ma allora non c'era niente. Io e lui, su per le montagne. Rifacevo i sentieri che avevo già fatto a piedi come scout. Ma a cavallo è tutta un'altra cosa: non guardi il terreno, non guardi dove mettere i piedi. Il tuo sguardo può spaziare verso il cielo, verso le vette, puoi permetterti di seguire il volo di un'aquila. A camminare ci pensava Geremia. Il cavallo non ti toglie solo la fatica di camminare, non è tanto questo l'importante. Importante è che quando ti metti in sella ti si sgombera la mente, puoi pensare, osservare, studiare. In montagna c'ero già stato, ma tornarci a cavallo, in sella a Geremia, mi fece provare un nuovo stupore, quasi la vedessi per la prima volta.

E viaggiavi da solo?
´Solissimo. Di cavalli non ce n'erano molti in giro. Quando incontravo altri escursionisti erano "oh" di stupore: non si aspettavano di incrociare un cavaliere a 2500 metri. Questa è una cosa in più che ti offre il cavallo: la possibilità di socializzare. Ai miei campi, lassù, c'era sempre qualcuno che si fermava per parlare. Io mi sfogavo, cercavo di spiegare il fascino di certe conquiste più spirituali che sportive, parlavo degli indiani delle pianure.

Già, come e quando sono entrati i pellerossa nella tua vita?
´Ci sono sempre stati. Il loro spirito l'ho sempre avuto dentro. E' dal '70 che li studio approfonditamente. Andai anche a Parigi a visitare una mostra al Museo dell'Uomo. Lì raccolsi molti volumi e presi contatti con altri studiosi. Lo stile di vita degli indiani delle pianure era il mio. I loro pensieri i miei. E' sempre stato così.

A che tribù ti senti di appartenere?
´Ai Cheyenne. Erano pochi, avevano uno splendido rapporto con i cavalli e andavano d'accordo con le altre tribù, specie con i Lakota di Cavallo Pazzo. Avevano anche una considerazione delle donne decisamente superiore a quella che avevano i Sioux.

Così hai iniziato a produrre oggetti tipici degli indiani.
´Costruivo per me le cose che mi servivano. Una scelta funzionale, non di moda. Alcune cose piacevano ai miei amici e mi chiedevano di farle anche per loro.

Hai anche un negozio a Torino.
´Non è un negozio e infatti non sempre è aperto. Io vendo solo agli iscritti all'Alpitrek. Però basta iscriversi....

Quando Ë nata l'Alpitrek?
´Nell'82, ma cominciò ad essere conosciuta l'anno dopo, con la traversata delle Alpi da Ventimiglia a Venezia. Montavo Gregorio, il cavallo della mia vita.

Parlaci di Gregorio.
´Cercavo un cavallo e mi rivolsi al vecchio amico di mio padre. Era il 1978. Gregorio lo acquistai a Torino per due milioni e mezzo. Era un anglo-arabo-sardo baio. Con lui instaurai un rapporto bellissimo, fondato sulla fiducia e sulla stima reciproca. Non ci siamo mai traditi. Ho sofferto molto per la sua perdita. Lo avevo ricoverato alla clinica veterinaria di Torino per togliergli un dente. Ma quando lo aprirono sotto anestesia i veterinari scoprirono che aveva un carcinoma maligno alla testa. Mi consigliarono di non farlo risvegliare per non farlo soffrire. Fu una decisione tremenda. E' morto tra le mie braccia.

Era il 1994. Un periodo terribile; da pochi giorni era morto mio padre; dopo pochi giorni se ne andò Silla, mia moglie, che tornò in Germania per svolgere la professione di veterinario. Aveva difficoltà a lavorare in Italia. Inoltre lei cercava di gettarsi nella mischia, io di starne fuori. Aveva desiderio di fare la sua strada, non di seguire la mia. Da allora non l'ho più vista.

Quali sono stati i momenti più belli?
´Ogni volta che vedo il cielo perdersi al tramonto dietro a una vetta penso che potrei morire contento. La morte non mi spaventa, è una sorella. In fondo è l'ultimo avvenimento della nostra vita.

Sei religioso?
´Non sono un vero cristiano. Negli indiani delle pianure ho trovato una spiritualità non diversa da quella del "cattolicesimo buono". Non sono alla ricerca di Dio, ne sento costantemente la presenza. Il continuo soffio di Dio che sento sulla nuca mi aiuta a superare qualsiasi difficoltà.