Irving 18 ottobre 1832

Come mai la progressione nell’Alpitrek, è scandita da tempi e regole precise?
 Semplice l’abbiamo imparato dall’esperienza in lunghi e brevi viaggi , leggendo i resoconti dei popoli nomadi, quelli delle cavallerie di più eserciti e seguendo fisicamente i campi dell’artiglieria someggiata, l’ultima ad usare quadrupedi un Italia, alcuni cavalieri con noi non vengono perché si annoiano, sveglie col buio, notti sottotelo, bocconi frugali, nessun galoppo sfrenato, si fila in fila, un signore tempo fa aveva affermato che nella nostra maniera  - non si divertiva-  e non potevano accadere incidenti; per lui era un appunto per me grande elogio.
Rileggendo il diario scritto da irving nel 1833 e da me letto nel 1983, il mio animo ha esultato nello scorrere il capitolo che sotto riporto.
Lo stato d’animo suo, è stato quando ero giovane.
La lezione descritta e da noi applicata con rigore, contraddistingue il nostro modo di andare, avvicinandolo a quello tradizionale usato nei tempi passati.
Le parole di Irving sono semplicemente stupefacenti, condividerle non basta ma basta applicarle.




18 ottobre 1832
Nel corso della mattinata ricevetti una lezione sull’importanza di risparmiare il proprio cavallo sulla prateria. L’animale che cavalcavo superava per potenza e spirito generoso la maggior parte dei cavalli di cui era dotata la spedizione. Nell’attraversare profondi burroni si arrampicava come un gatto per le sponde scoscese ed era sempre pronto a saltare gli stretti corsi d’acqua. Non capivo l’imprudenza di lasciarlo avventurare in queste prove di forza fino a che, nel saltare un piccolo ruscello, non lo sentii crollare di colpo sotto di me. Per un breve tratto continuò ad avanzare zoppicando, ma presto si accasciò a terra del tutto azzoppato. Che fare? Non avrebbe potuto tenere il passo con la truppa ed era troppo prezioso per essere abbandonato nella prateria. L’unica alternativa era di rimandarlo al campo con gli ammalati a condividere la loro sorte. Ma, neppure con la promessa di una generosa ricompensa, nessuno sembrava disposto a riportarlo indietro, o perché i racconti di Tonish e sui pawnee, avevano diffuso il timore di nemici in agguato ad ogni passo, o perché c’era la paura di smarrire la pista e di perdersi. Alla fine si presentarono due giovani disposti a partire in compagnia in modo che, se sorpresi dalla notte sulla prateria, uno potesse fare la guardia mentre l’altro dormiva. Affidai a loro il cavallo e a lungo lo seguii tristemente con lo sguardo mentre si allontanava zoppicando, poiché con lui se ne andava anche la mia sicurezza e la mia forza. Capivo adesso il completo rovesciamento della situazione a cui si trova esposto un cavaliere sulla prateria, e sentivo in quale misura lo spirito del cavaliere dipendesse da quello del cavallo.
Fino a quel momento avevo potuto liberamente allontanarmi dalla linea di marcia e lanciarmi al galoppo verso qualsiasi cosa attirasse il mio interesse, adesso dovevo adattarmi al ritmo dello sfinito animale che cavalcavo, condannato a procedere stancamente e lentamente dietro agli altri.
Soprattutto capii a mie spese quanto fosse imprudente, in spedizioni come la nostra, quando la salvezza di un uomo può dipendere dalla freschezza e dalla velocità del cavallo, mettere a dura prova un generoso animale con inutili esibizioni della sua forza.
Ho osservato che i cacciatori e i viaggiatori della prateria, quando sono prudenti ed esperti, risparmiano sempre i cavalli durante il viaggio, mai lanciandoli fuori dalla pista eccetto in caso di emergenza.
Il normale percorso giornaliero degli uomini di frontiera e degli indiani non supera mai le 15 miglia e la media si aggira sulle 10 o 12, e non si abbandonano mai a galoppate capricciose.
tratto da ‘Tour of the Prairies’ di W.Irving