Kalifa Salem

Emi Koussi 68

Era una domenica d’estate del 1968. La giornata era calda,  ma in caserma si stava bene, era fresca. mura spesse soffitti alti. Milano era vuota. Non sapevo né cosa fare né dove andare così non ero uscito. Ormai ero alla fine della naja e la caserma quasi mi proteggeva dalla borghesia. Non so come mai c’era un giornale, non ne arrivavano tanti. Non so se era del giorno o del giorno prima. Ma mentre lo sfogliavo ho letto che alcuni  alpinisti torinesi erano stati fermati in Ciad perché scambiati per  mercenari bianchi. Va da sé che ho letto attentamente l’articolo perché quel gruppo era costituito da miei amici scout tra i quali c’era anche mio padre. Incoscientemente non mi ero preoccupato più di tanto, anzi, avrei voluto essere con loro.
Mi è venuto in mente di raccontare questa storia perché oggi  mi è saltata sotto gli occhi l’immagine di quel giornalista di "Repubblica” rapito in Afghanistan lo scorso anno. Tutta la mobilitazione che c’è stata per liberarlo, tutte le iniziative governative, non governative, filogovernative si  erano  mobilitate per liberarlo. Più un morto, però era solo un afgano.
Ecco perché mi è venuto in mente di raccontare questa storia.
La spedizione italiana aveva come obiettivo la salita all’Emi koussi, il tetto del Sahara, e, per attraversare il deserto, aveva ingaggiato due guide libiche. Arrivati in Ciad, nello Zouar-kè, erano stati fermati dai tebù in rivolta ma le virtù umane dei componenti la spedizione avevano suscitati simpatia tra  loro a tal punto che li avevano lasciati passare.
 Così la spedizione aveva raggiunto Forte Zouar, un’oasi fortificata nel sahel dove un battaglione di soldati ciadiani, al comando di un ufficiale della legione erano assediati da parecchi mesi. Scambiati dal governo per mercenari bianchi (erano mesi che nessuno passava attraverso le linee tebù) venivano tradotti a Fort Lamy,  capitale del Ciad. Questo trasferimento venne fatto con un mitico DC3, residuo del ’45 decollato dall’oasi sotto un fuoco di copertura da parte dei ciadiani. A Fort Lamy in pochi giorni, tramite l’ambasciata e il corpo diplomatico veniva chiarito l’equivoco e gli scout alpinisti venivano rilasciati. Tutti avevano consigliato a loro di rientrare immediatamente in Italia senza alcun rischio. Gli sponsor che avevano aiutato l’impresa avevano calorosamente pregato di lasciare i mezzi (loro) a Zouar perché non valeva la pena rischiare per andarli a riprendere.
Ma
Ma a Zouar era rimasto Kalifa Salem, scuro come il carbone, contento di essere al mondo , e attraversando il deserto era diventato amico con gli scouts della spedizione. Al contrario del giornalista di "Repubblica” tutto il gruppo, anziché tornare direttamente in Italia, aveva aspettato che il DC3 tornasse a Zouar per portare i rifornimenti, ed era ritornato all’oasi per riprendersi Kalifa. Vi potete immaginare la gioia di quest’ultimo quando li ha visti ritornare. La situazione era così così. I cammelli delle truppe ciadiane non potevano più allontanarsi dal forte e il pascolo nelle vicinanze non c’era più. I corvi avevano cominciato a mangiare le gobbe dei cammelli da vivi procurando  orribili piaghe e il sole tutte le mattine si alzava senza pietà alcuna.
Ok.
Si salutano i soldati, ovviamente all’impresa alpinistica si era già rinunciato. Adesso l’impresa consisteva nel tornare in Libia. E, ovviamente, sulla strada del ritorno, avevano di nuovo incontrato i tebù con i quali, questa volta dopo ore di trattative, si era raggiunto l’accordo per passare sul loro territorio.
Non sta a me raccontare cosa è successo in quei momenti, anche perché  l’ho saputo parecchi anni dopo e non da mio padre ma da Roberto. Furono momenti cruenti in cui si spararono parecchi colpi di mitra  e nessuno ne ha mai parlato. Per fortuna non contro la spedizione ma tra diverse fazioni di tebù. passato miracolosamente questo momento sanguinosamente  critico la spedizione era riuscita a rientrare in Libia e imbarcarsi per l’Italia riportando a casa sua la persona che gli stava in quel momento più a cuore e per il quale avevano rischiato più di qualcosa: Kalifa Salem.
Mi è venuto in mente di scrivere questa storia perché i miei amici penso siano completamente diversi dalle persone normali che in questo momento ci imperversano addosso cercando di ridurci nella loro " norma "dove il valore della vita è dettato non dall’umanità dell’uomo ma dal colore della pelle e dalla quantità di soldi che quella pelle possiede. Kalifa aveva solo un camion, un Esagamma, e con quello faceva vivere felicemente la sua famiglia. Il lavoro lo aveva portato a conoscere questi italiani e con questi aveva stretto un legame di amicizia, e questi italiani erano scout del TO24 e del TO17, per sua fortuna, e non erano giornalisti della "Repubblica” perché se lo fossero stati Kalifa avrebbe fatto al fine del povero afgano. Per fortuna fra noi onore, amicizia e lealtà esistono ancora.

Mauro Ferraris

P.S. Nel 1973 ero fermo da dieci giorni a Tamanrasset, dormivo in una buca nella sabbia la sera nel deserto fa un freddo boia aspettavo un passaggio per attraversare trasversalmente il deserto e non lo trovavo. Un pomeriggio avevo notato tre camion fermi non lontano, mi ero avvicinato e avevo visto che erano dei FIAT (quelli algerini erano tutti Berliet), ero andato di corsa da loro  erano camionisti  libici, e andavano nella mia direzione, e allora gli avevo chiesto se conoscevano Kalifa Salem e loro lo conoscevano benissimo. E allora gli avevo detto che mio padre era andato con lui nel Ciad anni prima e loro conoscevano la storia. Il giorno dopo ero con loro sui loro camion verso Fort Gardel e Djannet, uno dei posti più belli della terra.


P.SS. poi sono andato a piedi sul Tassili a Jabarren una città neolitica piena di meravigliosi disegni tori elefanti giraffe gazzelle  mortai e punte di frecce per terra il Shaara era fertile e l’uomo lo a ridotto a deserto ma anche adesso il deserto è meraviglioso