Ma che c'entrano i cavalli

Il tre luglio millenovecentosessantanove in corso Traiano ci fu battaglia, eravamo andati davanti ai cancelli di Mirafiori pieni di entusiasmo rabbioso, l’entusiasmo dei vent’anni, non eravamo andati per manifestarepacificamente, non volevamo piú sentire parole, eravamo andati a cercare lo scontro, e scontro fu.

Arrivó magnifico, esaltante, per mettere alla prova fede, ideologia, coraggio.

Arrivó con due battaglioni che marciavano ordinati contro di noi, color kaki quello formato dai giovani Carabinieri del "Padova”, grigioverde la "Celere”. Erano coperti da scudi ed elmi di ferro, il loro ordine

era perfetto.

Alla loro vista compatta la manifestazione fuggí, mi misi a risalire la fuga contro corrente, volevo battermi, in quel momento era l’unico modo per riscattare la libertá. Cosí ci trovammo uniti, non per caso, come si trovano sempre riuniti uomini simili, dove il pericolo è maggiore.

Ricordo urla, adrenalina, bastoni, pietre e lacrimogeni, ricordo venti compagni pronti a non lasciarti solo, ricordo un magnifico, tribolato amore, che pieno di vita mi prese per mano e mi trascinó fuori dal pericolo d’esser preso; per salvarmi mi fece correre piú veloce ancora, e cosí a lungo che dopo vomitai l’anima.

La giornata era calda, il sole alto, muratori del cantiere (a quei tempi corso Traiano era tutto un cantiere) ci fecero bere dai loro bottiglioni di vetro.

In quel momento la vita aveva preso una forma leggera, intensa come non mai, carica di tensione e piena di scopi.

Potevo finalmente togliermi di dosso gli odiosi e troppo stretti abiti borghesi e schierarmi fiero e a viso

aperto dalla parte dei guerriglieri.

La scuola finí, il lavoro cessó, inizió un periodo libero e randagio, in compagnia di venti compagni pronti a non lasciarti solo.

Poi arrivó il conto, di notte nelle strade, nei casoni delle Vallette, nelle sale fumose e buie delle riunioni o delle caserme.

Svaniva piano piano l’entusiasmo libertario, svaniva in maniera balorda tra minacce e tradimenti, svaniva l’epica fede, rimaneva solo l’ancora testarda di non entrare nel partito che ti odiava e che ti era nemico piú dei nemici e che disprezzavo a squarciagola.

Poi ce le prendemmo dure sul muso anche sul terreno, come due e due fa quattro, volevamo salvare gli

sfruttati, appoggiammo la borghesia riformista, questo fu il peccato piú grave.

Cosí mi sono trovato in fondo al vicolo, senza amore, senza denaro, con pochi amici, agli squallidi luoghi comuni lasciati alle spalle, se ne erano sostituiti altri piú comuni ancora, non volevo piú andare avanti e non volevo neanche tornare indietro. Aspettavo con gli occhi sbarrati il fatale giro di boa dei trent’anni.

In un pomeriggio talmente buio in cui neanche il sole enorme di luglio riusciva a dar luce mi tornó il sogno ricorrente della prima adolescenza, che pensavo di aver perso, era un sogno pieno di indiani, di cavalli, di montagne; era un bel sogno, adesso lo so.

Cosí, senza un soldo, senza casa, senza niente, comprai un cavallo "bellissimo”, Geremia si chiamava, e lo seguii sulle montagne per vivere con lui senza rimpianto.

Mauro Ferraris

 

N.B. Qualcuno dei venti compagni pronti a non lasciarti solo è morto, qualcun altro è in esilio, altri sono prigionieri di guerra, ma nessuno di loro è entrato nella politica parlamentare e nessuno ha dimenticato.

 

agosto 1974

Geremia al Colle del Tabor

3000 metri